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giovedì 12 settembre 2013

Un'eccitazione pericolosa

L’atmosfera che si respirava ogni anno alla festa paesana che l’isola dedicava all’apparizione della madonna era davvero magica. Non fosse stata per quell’afa densa e compatta che come una maledizione appestava l’aria praticamente solo in quel periodo.
Migliaia di persone, in quelle sere, si alternavano ai tavoli dello stand gastronomico e ai piedi del palco dove il comitato faceva a gara per superare se stesso e ogni estate cercava di accaparrarsi artisti sempre più noti. Senza l’afa, la sagra sarebbe stata anche molto più frequentata ma in quel caso forse l’isola sarebbe affondata, se già la marea di persone traboccava verso il mare e verso la laguna, intasando ogni angolo del paesino e invadendone le spiagge di solito deserte.
Anche quell’estate, però, il richiamo per noi era più forte del caldo, della ressa e della fila interminabile che come ogni volta ci aveva accolto quando arrivammo all’area dove si poteva cenare. Un’ora e oltre di attesa, le zanzare e il sudore che ci incollava i vestiti e ci appiccicava l’un l’altro se qualcuno spingeva, era liquido infiammabile per gli animi.
Stavamo guadagnando ormai il tavolo delle ordinazioni e quasi alle dieci di sera speravamo di riuscire a mangiare qualcosa. Un gruppo di isolani, cercando di raggiungere gli amici del comitato, ci superò proprio all’ultimo. Inutile ogni tentativo di riportare l’ordine nella fila e il gruppo, anche abbastanza numeroso, ci era passato davanti. Era stata accesa la miccia. Mio marito sapeva che il non riuscire ad ottenere ragione del diritto di precedenza così strenuamente difeso per tutta la sera, era per me un affronto insopportabile e che il caldo dava alla testa. Così lo vidi farmi cenno di smettere quando insistetti nel chiamare, bussandogli alle spalle, l’uomo alto e muscoloso che aveva forzato la fila. Il resto fu un attimo, il mio atteggiamento aveva irritato l’energumeno che si voltò e mi prese per il collo. Io mi sentii minacciata e gli misi una mano al cavallo dei pantaloni stringendogli in una morsa le palle.
Ci guardammo per un attimo fissi negli occhi, senza vedere nient’altro che la volontà di sopraffare l’altro e senza sentire niente se non le nostri parti vitali nelle mani dell’altro, lui il mio collo liscio e indifeso, io i suoi genitali turgidi e tesi, che ad ogni stretta si indurivano e si gonfiavano sempre di più.
La rissa era sicura, così mio marito intervenne e mi trascinò via.
Fece benissimo, perché insieme all’uomo che mi aveva afferrata, si erano affiancati anche altri due facinorosi e il mio consorte non era certo un tipo da mischie.
Così, ci decidemmo a cenare in un ristorantino del posto, litigando per tutto il tempo sull’accaduto e poi ci incamminammo verso casa, bisticciando sempre più animatamente, con lui che camminava avanti e mi battibeccava ed io dietro che rispondendo infastidita e perdevo ad ogni metro terreno.
Ad un certo punto, cercai un modo per non averlo più davanti a me e cambiai strada, andando verso la spiaggia. Il mare riusciva sempre a calmarmi ed avevo intenzione di fermarmi un po’ e poi tornare a casa calma e con la mente serena.
Ma i pensieri e il rammarico di aver sprecato una bellissima serata con mio marito mi portarono molto in là con la meditazione e non mi accorsi che stava facendosi notte fonda.
Ad un tratto, mi sentii afferrare per le spalle e qualcosa di duro premermi sulla nuca. Pensai ad un’arma, ma poi sentii la ruvidità del jeans sulla pelle e cercai di voltarmi per baciare mio marito.
Non era lui, ma l’uomo della rissa.
Pensai di essere spacciata, me ne potevo prendere di santa ragione e mi aspettai lì per lì anche una violenza, sapendo di avergli ben stretto palle e cazzo e non certo con dolcezza.
Mi alzò, mi girò e mi guardò negli occhi. “Non male, la presa” mi disse, ma non vedevo intenzioni minacciose. Dalla parlata, era uno del posto. Si era cambiato. Non aveva più camicia e pantaloni eleganti, ma una t-shirt ed un paio di jeans portati con gli infradito. Dalle forme muscolose del corpo che risaltavano da quel vestire casual, capivo che era un pescatore o un operaio dei cantieri navali.
Mi prese nuovamente per il collo ed io pensai che fosse arrivata la fine.
Invece, stringendo senza farmi male, mi portò il viso vicino al suo e spudoratamente mi baciò, prima dolcemente, poi sempre più appassionatamente, fino a invadermi del tutto la bocca con la lingua e a mordermi le labbra sempre più voracemente.
In quegli istanti, non capii più niente e mi lasciai trasportare da quella passione improvvisa e contrastante con il timore provato, come se quell’uomo fosse il mio salvatore da un lui stesso carnefice.
Le sue mani rovistarono sotto il mio vestito leggero e scoprirono subito che non portavo biancheria intima. Era un gioco che facevo quando uscivo a cena con mio marito, nella speranza che la serata prendesse una piega passionale, come più di qualche volta accadeva.
Sorrise malizioso e mi infilò una mano tra le gambe, dove non potevo mentire. La situazione, lui, le sue braccia muscolose che mi stringevano in una morsa e non mi avrebbero dato modo di ribellarmi nemmeno se l’avessi voluto, il mare che si infrangeva negli anfratti degli scogli e tra i frammenti di conchiglie che formavano un tappeto sulle spiaggette, il buio quasi totale della notte riempita del profumo delle tamerici e degli ultimi suoni della festa, il ricordo di quella stretta sui suoi genitali turgidi e gonfi, tutto mi eccitava terribilmente ed ero bagnata e calda, con la vagina pulsante che aspettava solo di essere penetrata.
Invece mi spinse giù all’altezza del cavallo dei pantaloni e si aprì la patta.
“Faresti bene a chiedergli scusa, con un lungo e appassionato bacio, bella”. Presi la sua verga in bocca e cominciai il miglior pompino che mi fosse mai riuscito ....

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