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mercoledì 6 novembre 2013

Dopotutto oggi è un altro giorno - Romanzo - Capitolo I - Maledetta primavera

DOPOTUTTO OGGI E’ UN ALTRO GIORNO
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La storia qui svelata e' una storia vera, raccontatami dai due protagonisti, che ne hanno approvato la stesura.
La vicenda si svolge a partire dal febbraio 1983 ad Adria, un’allora vivace cittadina del Polesine, terra tra il fiume Adige e il fiume Po e che in quegli anni si presentava così


I nomi, le professioni, i legami familiari che potevano portare ad identificare i personaggi principali, sono stati modificati per consentirne la privacy.


Capitolo I
Maledetta Primavera

Elena aspettava il caffè che non arrivava mai. Non aveva tempo, era già in ritardo e doveva accompagnare il bambino all'asilo, prima di correre ad aprire l'ufficio.
Bobby frignava, il barista serviva ombre di primo mattino e la macchina dell'espresso sbuffava più di lei.
"Guardi, va bene lo stesso, lo prendo magari dopo." disse uscendo senza salutare.
Fece salire il piccolo in macchina, comperò il Sole 24ore e Il Gazzettino, accese la Fiat Ritmo appena presa - che già voleva cambiare - e le sembrò che la giornata prendesse senso.
Parcheggiare davanti all'asilo era sempre un problema. L'entrata dava su una via stretta e con divieto di sosta e alle otto c'era la più alta concentrazione di genitori mai vista in pochi metri quadrati, perciò invece di abbracciare e baciare Bobby come avrebbe voluto, doveva sempre accontentarsi di salutarlo sulla porta e vederlo dare la mano alla Madre Superiora che la guardava con un'accondiscendenza compresa nel prezzo della retta mensile.
Aprì l'ufficio con pochi minuti di ritardo, ma - si ripromise - l'indomani doveva riuscire ad essere puntuale... Era una questione di principio... Oltre che di professionalità, s'intende.
Sistemò la scrivania già riordinata la sera precedente, accese la macchina da scrivere elettronica, non elettrica: questa teneva in memoria un'intera frase, che si poteva rileggere e correggere e finalmente stampare senza usare quegli odiosi correttori, silenziosi testimoni dei suoi errori di battitura.
Il titolare era uno sempre aggiornato sulle novità tecnologiche e lo aveva sentito anche parlare con un paio di consulenti per l'acquisto di un elaboratore elettronico per l’archivio e la consultazione delle leggi e delle sentenze. Non vedeva l'ora di poterlo usare, anche se imparare sarebbe stato impegnativo.
Tutto era impegnativo, anche la casa e la famiglia con tre bambini e un marito imprenditore.
Ma una donna in carriera come si sentiva lei poteva tutto.
Suo marito Michele era un uomo impegnato nel lavoro, questo la faceva sentire orgogliosa. Correva avanti e indietro per contratti e forniture con le grandi firme della moda che commissionavano alla Città, e dintorni, confezioni di sartoria, maglieria ed intimo per fatturati miliardari. Il centro, le frazioni, i paesi vicini fin giù in tutto la parte della provincia che scivolava verso il mare brulicavano di laboratori che accoglievano migliaia di lavoratori e lavoratrici più o meno in regola, stipati in capannoni o in garage, con o senza finestre, con o senza garanzie di sicurezza, tutti sempre senza nemmeno il tempo di alzare la testa dal lavoro ne' poter andare in bagno più di due o tre volte in otto o anche dieci, undici ore di lavoro. In uno dei laboratori di suo marito lavorava anche la sua amica Rosalba, e per questo di fronte a lei era un po' meno orgogliosa.
"Buongiorno!" la porta dell'ingresso si era spalancata ed era arrivato il titolare, con la sua Cambridge di cuoio vissuta e il portasigari già in mano.
Aveva sotto il braccio anche una voluminosa cartella che aveva studiato tutta la notte e le posò sul tavolo una ventina di pagine fitte, scritte di suo pugno, da ricopiare senza errori su fogli uso bollo. Un’azione legale civile per un danno valutato centinaia di milioni di lire.
Si mise all'opera e con la sua prodigiosa Olivetti ET115 avrebbe finito per mezzogiorno.

Potevano essere più o meno le undici, perché il lavoro era a buon punto, quando fu distratta dalla porta che si apriva alle sue spalle e da una voce sconosciuta che salutava.
Si girò sulla sedia dattilo e vide un uomo sulla quarantina, capelli lisci e ben tagliati alla Alex di Casa Keaton.
Se il suo mezzano fosse nato dopo la messa in onda di Casa Keaton l'avrebbe chiamato Alex perché quel ragazzo della serie tv le piaceva troppo.
Era un nuovo cliente, mai visto prima.
Abbronzato, portava un braccialetto d'acciaio al polso destro che spuntava dalla manica del giubbino di daino scamosciato.
Jeans, camicia scura, occhi languidi e profondi, sorriso che sembrava un bracciale di perle.
“Scusi…” e il suo sguardo scivolò sulla mano sinistra di lei “…signora… cercavo l’avvocato…”.
L’Avvocato, come lo chiamavano ormai senza aggiungere mai né il nome né il cognome quasi a voler fare il paragone con il famoso Agnelli, era impegnato al telefono e tra un minuto l’avrebbe avvertito, precisò Elena, mentre indicava con la mano aperta una delle sedie Thonet della sala d’attesa e si accertava sbirciando se l’uomo avesse la fede al dito.

Scosse la testa, stava facendo considerazioni sconosciute al suo modo di pensare e l’imbarazzo la fece arrossire.
Tornò a trascrivere il testo e sentiva che lo sguardo del nuovo cliente non era su di lei perché udiva sfogliare una rivista con un ritmo abbastanza lento da supporre che lui stesse guardando il giornale senza distrazioni. La cosa la indispettì, suo malgrado, ma pensò che forse era quel suo modo di vestire classico, quella camicetta di seta scialba che per una donna in carriera andava bene, ma per una donna e basta, no.
Lo scorrere torrenziale dei pensieri fu interrotto dalla spia del centralino telefonico che indicava che una telefonata era stata conclusa e subito dopo si aprì la porta e il professionista e il nuovo cliente si fecero incontro stringendosi la mano complimentosi. L’Avvocato si tolse il sigaro aromatizzato vaniglia dalle labbra e gettando il residuo in uno dei posacenere che aveva disseminato per lo studio, indicò il lavoro di trascrizione di Elena.
“Quasi pronta. Se dice, nel pomeriggio le fisso un appuntamento e la leggiamo. Se condivide il contenuto, firmetta e domani presentiamo in Procura”.
Elena aveva già la penna in mano e l’agenda aperta. La sua curiosità voleva sapere nome, cognome, telefono, indirizzo e ora dell’appuntamento del pomeriggio in cui sarebbe tornato.

Alle 17 il lavoro era pronto, rilegato ed impeccabile. “Ecco, Avvocato, glielo lascio per l’appuntamento con il sig. Antonio…penso sia qui fuori che parcheggia”. Lo sguardo del titolare si elevò sopra gli occhiali da lettura e un cenno secco del capo le comunicò che “va bene, grazie, lo stava interrompendo, poteva andare, non occorreva tanta premura”.
Antonio, questo il suo nome. Per tutto il tempo in macchina e in cui era stata in cucina e per tutto il pranzo e il ritorno ci aveva pensato e la faccenda non le era piaciuta perché le aveva procurato un bel po’ di distrazioni e di imprevisti.
Dunque adesso era meglio che si ricomponesse la mente, ma prima doveva aggiornare il registro clienti con il nuovo nominativo e si sorprese ancora una volta a sperare che la memoria da depositare fosse da correggere, integrare, tagliare qua e là perché poi ci sarebbe stato un nuovo appuntamento.
Il nuovo cliente sig. Antonio uscì dallo studio dell’Avvocato salutando appena.
Sarebbe tornato il lunedì successivo, avvertì il titolare, perché aveva una consegna all’estero e la memoria doveva essere riscritta per quel giorno.
L’epilogo sollevò Elena da una giornata nella quale i suoi pensieri erano stati in cattura di un unico polo d’attrazione e ciò cominciava a starle stretto, perché non era solita darsi in consegna ad un soggetto di qualsivoglia ruolo nella sua vita.
Il pomeriggio volgeva al termine e verso le 18 il suo lavoro poteva dirsi terminato. A fine febbraio, il crepuscolo era di un viola acceso da vampate fucsia e si spegneva nel rosso orizzonte che preludeva alla primavera piena.
Il bacino centrale del Canale era lo specchio di quel cielo che stava arrossendo come lei a qualche sfuggente pensiero sugli strani pensieri di quel giorno ed il Corso, la Strada Grande come l’ingenuità popolare la chiamava, era un fiume in piena di persone che si gustavano la passeggiata serale.
L’auto era parcheggiata dall’altra parte del centro, ma lei aveva voglia di camminare, voglia di avere ancora qualche minuto per sé prima di arrivare a casa. Si fermò a prendere un po’ di prosciutto per la cena all’Osteria più frequentata dai perditempo e un po’ di vitello nella macelleria lì di fronte.
I suoi tre bimbi l’attendevano con la nonna e suo marito sarebbe rincasato molto tardi.
Elena girò la chiave dell’auto, abbassò il finestrino con l’enorme soddisfazione che per farlo bastasse premere un pulsante e non più slogarsi il polso, e partì verso casa, una villetta con taverna, mansarda e giardino ben curato nella zona residenziale della città.

In quel momento, Antonio stava parcheggiando il suo autoarticolato sulla piazzola antistante casa sua, uno spazio sterrato che si era ricavato rubando vegetazione all’argine del Canale e aggiungendovi di tasca sua (e dio-solo-lo-sapeva quanto gli era costato) un terrapieno rinforzato. Più sotto, l’orto coltivato da sua madre sulla porzione di riva demaniale che più o meno corrispondeva alla larghezza della sua proprietà al di là della strada, una casa di campagna ristrutturata e ampliata, con una grande pensilina sul lato est, dove la sera d’estate si ritrovavano spesso in famiglia e con gli amici per lunghe e chiassose cene.
Suo figlio aveva parcheggiato male l’auto nel vialetto in discesa che portava al cancello. Come al solito, impediva un comodo accesso a chi doveva passare, cioè a sua moglie, che sarebbe tornata dal turno serale più tardi e avrebbe lasciato la macchina sulla strada, chiamandolo per aiutarla.
Era stanco, aveva voglia di una doccia, di accendere la tv e di una birra. Sua madre, per fortuna, si sarebbe occupata della cena come sempre e almeno quell’incombenza non lo riguardava.
L’indomani, prima di partire e caricare il camion, avrebbe però dovuto seminare l’erba.
Lo preoccupava il pensiero di quella causa per risarcimento che stava curando l’Avvocato, un professionista eccellente. Almeno, poteva pensare di aver scelto per il meglio e questo avrebbe potuto calmare i suoi pensieri. In realtà, era un uomo determinato e non riusciva a distogliere il pensiero dall’obiettivo, quando ne aveva uno di importante. E non era riuscito a distogliere lo sguardo da quella segretaria, quella mattina, sbirciandola di sottecchi mentre fingeva di sfogliare una rivista presa a caso, un numero di Vogue che aveva gambe lunghissime e donne con il cappello sulle pagine patinate. Chiunque si sarebbe accorto che fingeva, ma a quale uomo interessa Vogue? Neanche fosse Play Boy, si disse! Eppure la donna non aveva accennato a nulla. Seria, professionale, con quel sorrisetto da impiegata modello, quella blusa scialba che però era ben trasparente sotto le luci al neon e lasciava trasparire un bel paio di tette strette in un reggiseno a balconcino di pizzo chiaro. Eh, ma che contegno che aveva. Proprio da santarella, di quelle tutte compìte, che non si lasciavano raggiungere facilmente. Però, però, si disse mentre si apriva il soffione della doccia e un getto gelato lo fece rabbrividire, però una sbirciatina alla mano sinistra l’aveva data. Come lui, del resto. La donna portava la fede. Quindi, era l’impiegata dell’Avvocato e la moglie di qualcuno.  Lui, era solo il marito di una, ma del resto per la sua vita professionale non apparteneva a nessuno. Appartenere, un verbo che non usava spesso, piuttosto preferiva possedere. Possedere la sua casa, possedere il suo camion, possedere una bella famiglia, possedere una vita di soddisfazioni. Se non fosse, ora, per quella spina nel fianco di quella causa civile per risarcimento che proprio doveva sistemare al più presto. Presto, si disse, quando mai in Italia le cause vanno a posto presto? Sarebbe stato più veloce sedurre la segretaria gelida dell’Avvocato che non finire la causa. 
E con quest’idea allettante, sporse un braccio dalla doccia e accese la radio che stava trasmettendo New Years Day degli U2.

˜˜

Pensare ad uno sconosciuto può accadere. E lo si può fare in mille forme e per mille motivazioni.
Ma l’inizio, il primo pensiero, si presenta sempre con la stessa distratta modalità. Sfuggente, passa e ci riporta un’immagine, una voce, un profumo. Poi, a volte ritorna, a volte no.
Quel finire di settimana fu per Elena un banco degli esperimenti. Registrò quel primo pensiero che si era affacciato, così, per caso, nella mattinata del venerdì. Si era accodato ad un rumore di porta che si apriva e ad un profumo maschile che riempiva l’ingresso. Lei si era sorpresa a pensare fosse lui anche se sapeva, dalle informazioni d’ufficio, che era all’estero per lavoro. “Lui” notò tra sé e sé “sembra quasi un modo confidenziale di pensarlo”. Ma nel chiudere lo studio, verso le 18, fece un altro pensiero e questa riflessione la tormentò per tutto il sabato e per tutta la domenica. Si era concretizzata, illuminante, la considerazione che se il primo pensiero era generato da un profumo, allora il senso di quell’immaginazione andava oltre la libera associazione di idee, oltre quei nessi casuali che si formano entropici, ma coinvolgeva chiaramente i sensi.
Più di tutti gli altri particolari, la sua mente ne rievocava il sorriso, i capelli lisci e scuri e gli occhi profondi.
E d’altra parte, non poteva ricordarne bene la corporatura, visto che lei era stata per tutto il tempo seduta mentre lui era in piedi e indossava un giubbino blu scamosciato e rimborsato in vita che doveva essere di ottima qualità, cadeva bene perché gli valorizzava la forma delle spalle e il portamento.
Sua nonna, le raccontava sempre dell’importanza del portamento negli uomini.
Però, ogni volta che riandava a lui con il pensiero, le si accompagnava una punta di fastidio per l’indifferenza con la quale aveva posato il suo sguardo su di lei, per la distrazione con la quale aveva salutato e per non averla nemmeno degnata di un’occhiata amichevole andandosene, come invece facevano tutti gli altri clienti uomini.
“Una cosa da chiarire” pensava in uno di questi lunghi percorsi di autopsicanalisi “un punto fermo, è che io non civetto con i clienti, sia inteso. Se fossi una di quel tipo, avrei già avuto le mie buone occasioni. Il commercialista, ad esempio, quello ammicca sempre. Anche il dentista, quello con i baffi brizzolati e l’aria sbarazzina…anche quello ci prova.”
Assorta in queste riflessioni, arrivò a casa e subito fu travolta da ogni tipo di altro pensiero, fino a prima di andare a dormire, quando si preparò una vasca di acqua spumosa, bollente e profumata. Facendo scendere il bagnoschiuma al profumo di zucchero filato sotto il flusso del grande rubinetto dorato,  passò il fugace pensiero dello sperma che suggellava il piacere, del dolcissimo sapore che aveva e del calore tiepido che invadeva il corpo quando le succedeva di far sesso con suo marito. E con lui, come sarebbe stato il sesso?
Rimase sul bordo della vasca come assente, scandalizzata da questo pensiero e solo l’acqua che le bagnò l’accappatoio nel traboccare fino a inzuppare tutti i tappeti del bagno, la svegliò da quella che in seguito avrebbe chiamato “la trance”.
Si tolse l’accappatoio e con quello asciugò il pavimento. Davanti allo specchio era nuda e nel guardarsi di sfuggita, si trovò ancora piacente e ben fatta nonostante gli anni e la maternità.
Dunque, le capitò di pensare, una chance poteva averla ancora.
Si addormentò nel tepore della vasca, con il mangianastri che suonava Maledetta Primavera.



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