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venerdì 8 novembre 2013

Dopotutto oggi è un altro giorno - Romanzo - Capitolo II - Vita Spericolata

DOPOTUTTO OGGI E’ UN ALTRO GIORNO
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La storia qui svelata e' una storia vera, raccontatami dai due protagonisti, che ne hanno approvato la stesura e la pubblicazione.
La vicenda si svolge a partire dal febbraio 1983 ad Adria, un’allora vivace cittadina del Polesine, terra tra il fiume Adige e il fiume Po e che in quegli anni si presentava così
 

I nomi, le professioni, i legami familiari che potevano portare ad identificare i personaggi principali, sono stati modificati per consentirne la privacy.


Capitolo II
Vita Spericolata.

Il lunedì mattina la gente stava ancora a chiedersi dove fosse finita la domenica, fatta di Messa nella Cattedrale, di saluti e convenevoli all’uscita, di cabaret di paste prese in fila nelle pasticcerie sovraffollate del centro e in più dopo interminabili attese se si decideva di prenderle in quella che veniva considerata la migliore, un minuscolo laboratorio dove più che dall’esposizione si sceglievano i dolci dall’aroma che profumava anche le vie vicine.
Una domenica dove il pranzo con la famiglia allargata a genitori, fratelli e nipoti era sempre di almeno tre portate che finivano dopo il caffè in un pomeriggio sonnolento e silenzioso davanti alla tv di Domenica In, con i bambini più grandi e i ragazzi spediti al Cinema dai Frati o al Massimo, secondo le disponibilità per il costo del biglietto e l’apertura d’idee della famiglia.
Al Politeama, no, non più. Avevano cominciato a buttarsi nel limbo dei film della commedia sexy all’italiana che offendevano la morale delle madri e non soddisfacevano i padri dei ragazzi maschi più grandi, che preferivano pensarli al Cinema Roma, dove invece i film erano più espliciti.
La sera, aggrappati agli ultimi sussulti del fine settimana, ci si illudeva di appartenere ad una cerchia di relazioni sociali passeggiando in flussi controllati in corsie opposte su e giù per la Strada Grande, a lucidarne il porfido o sui marciapiedi lungo le serrande ben chiuse dei negozi e sotto lampioni affievoliti, salvo fermarsi doverosamente con altre coppie, altri gruppi, altri conoscenti per non mancare di rinsaldare sodalizi e immagine pubblica.
Così, il lunedì mattina, appesantiti anche dalla cena che seguiva quella sfilata di riverenze reciproche, gli occhi erano in cerca di novità.
Elena accompagnò Laura e Diego alla scuola elementare, mentre negli edifici accanto frotte di ragazzi entravano per le lezioni.
Liceo e scuole professionali l’uno accanto all’altro, lei lo aveva considerato un segno dei tempi che cambiano, una coda del ’68, una concessione agli anni di piombo.
Non stava bene la vicinanza di gruppi di ragazzi appartenenti a classi sociali così diverse, avrebbe potuto divenire un alibi per contestazioni durante gli scioperi o, al contrario, una breccia nell’ordine sociale.
Così, era solita accompagnare fin dentro l’edificio scolastico i suoi due figli più grandicelli, tenendo l’altro più piccolo ben stretto per mano.
Nel piazzale davanti alla palestra, il solito vociare indistinto e gruppi di adulti, ragazzi e bambini che andavano e venivano da e verso i diversi plessi. Mentre tentava di farsi largo per oltrepassare quel muro umano, fu indotta a spostarsi per l'arrivo di un'auto dalla quale stava scendendo affannato un ragazzo.
La novità che cercavano i suoi occhi quel lunedì era lì, al volante, ed era la più inconfessabile.
Pensò si trattasse di un'infantile interpretazione, di un volo di fantasia, della sua fervida immaginazione, ma Antonio la stava fissando malizioso in cerca di uno sguardo complice.
Gli sorrise, sfrontata, con uno sguardo carico di promesse.
Riprese la sua Ritmo, trovò un posteggio dove lasciarla tutta la mattina e proprio davanti all’asilo, tanto che fece in tempo a scambiare anche più di un bacio con Bobby e un saluto civile con la suora.
La settimana si era aperta bene, la giornata sembrava promettente. Due passi, la fermata all’edicola e ora si meritava un buon caffè senza fretta.
Riuscì ad aprire l’ufficio puntuale e a sistemarsi i capelli gonfi e ricci davanti allo specchio, prima che il telefono cominciasse a squillare insistente come tutti i lunedì.
“Ma che succede a questa gente, nel fine settimana?” si disse mentre salutava un cliente al quale aveva dovuto dire che l’Avvocato sarebbe arrivato tardi, quella mattina. Ed ecco il telefono trillare di nuovo, mentre lei non riusciva a concentrarsi sulla pratica del nuovo cliente, che voleva rivedere ancora per non lasciare alcun errore e, ma questo non lo confessò mai chiaramente, per fare con lui bella figura.

Stanchissimo e assonnato, Antonio sarebbe andato dritto a letto.
Era tornato solo due ore prima dopo aver guidato praticamente due giorni, Italia Danimarca e ritorno, e suo figlio aveva voluto che lo accompagnasse a scuola.
Tanto doveva andare dall’avvocato, si era detto, e sarebbe stato inutile andare a dormire, per poi alzarsi incosciente e rischiare di non capire nulla di quello che gli si spiegava della causa.
Così, aveva deciso che si sarebbe fermato fuori, letto il giornale e bevuto un caffè al bar.
Al Centrale l’atmosfera era sempre accogliente, così si fermò anche più a lungo, prendendo un espresso doppio e facendo anche il bis.
Il Gazzettino del lunedì era formato da sole quattro pagine di notizie ed il resto, con le pagine di un giallo paglierino, parlavano solo di sport.
Qualcuno aveva fatto partire il jukebox, che suonava Lonely Nights degli Scorpions.
L’unica cosa, pensò, che forse aveva sbagliato era non farsi la barba, perché dall’avvocato avrebbe rivisto quella segretaria che tanto lo intrigava e che prima, davanti alla scuola, sembrava che già gli avesse promesso tutto.
Eh si, era proprio sicuro di aver visto giusto. In qualche modo doveva agganciarsi a quello sguardo e portare a casa un appuntamento.
Pensò che una telefonata allo studio gli avrebbe permesso di risentirla, avere subito qualche occasione e non sprecare tempo se per caso l’avvocato avesse avuto un imprevisto.
Aveva in tasca due gettoni e potevano bastare. Nel tempo in cui il disco del telefono componeva tichettando uno dopo l’altro le cinque cifre del numero dello studio, dovette ammettere che stava avendo un’erezione. Era bastato ricordare quello sguardo.
Niente, numero occupato.
Riprovò dopo un minuto, mentre il cavallo dei pantaloni gli si gonfiava sempre di più.
“Se qui qualcuna butta l’occhio” pensò baldanzoso “mi offre un caffè sperando in un altro epilogo”.
La voce sensuale dall’altra parte della cornetta gli sembrò piacevolmente tutt’altro che professionale.
“Pronto! Buongiorno, sono Antonio …… Parlo con lo studio dell’avvocato …?” e già sapeva che lei lo aveva riconosciuto “Bene, perché lei ha un modo amichevole di rispondere e…pensavo di essermi sbagliato e di averle telefonato a casa.”.
Silenzio.
“Guardi, era una battuta. Mi permette di scusarmi?”
Silenzio, solo un respiro.
“Allora, facciamo così, mi dice se l’appuntamento con l’avvocato è confermato per le 10 e poi di invitarla a bere un caffè?”.
“Sig. Antonio, l’appuntamento è confermato. Per il caffè, non saprei. Sa, non mi è permesso fare pause”.
Era una scusa, sicuramente, quando mai non si possono fare pause? Era arrabbiata per la faccenda del modo di rispondere amichevole. Amichevole voleva dire poco professionale.
Caspita, da un complimento che voleva fare, si era ritrovato a dire qualcosa con un senso opposto.
Va bene, ma era troppo permalosa.
Alla parola permalosa, sentì che le avrebbe messo le mani nella camicetta, frugando in quel reggiseno a balconcino che a lei forse sembrava che nessuno notasse, ma che lui le avrebbe tolto immediatamente. “E poi, dai” pensò “ti tolgo tutto in un attimo e allora sì che ti permetto di essere permalosa! E poi, arrabbiati, che mi viene ancor più voglia di stringerti e prenderti!”.
Pagò e con le mani in tasca dei jeans se ne uscì all’aria fresca del mattino, sperando di calmare un po’ quella voglia crescente di baciarla, di toccarla, di sentire che profumo aveva.

Elena si era preparata una buona scorta di fredda indifferenza professionale per accogliere quel nuovo cliente all’appuntamento delle dieci, ma quando sentì aprire la porta e lui le comparve davanti salutandola cordialmente, la fredda indifferenza diventò un seccato imbarazzo.
Forse non lo salutò nemmeno. Lo accompagnò dall’Avvocato, al quale portò il fascicolo, e richiuse la porta.
“Che stupida. Un’occasione di accettare un invito e io mi arrabbio. Peccato!” si rimproverò davanti allo specchio del bagno, dandosi una sistemata a quel ciuffo cotonato che non stava su. Era tempo di rifare la permanente.
Quando uscì, trovò Antonio che l’aspettava alla scrivania.
“Vorrei un appuntamento. Con l’avvocato, s’intende. Non con lei, eh, che dopo equivoca e si arrabbia.”
“Ecco, se le va bene, venerdì prossimo, alle 16. Mi scusi, sa, le sarò sembrata un po’ sulle mie. Ma arrabbiata, no. Quello no.”
“Bene, perché se avevamo litigato…sa, di solito per far pace poi si finisce a letto” azzardò Antonio, aspettandosi uno schiaffo.
“Accetto il caffè, allora, mi sembra meno scandaloso”.

L’appuntamento era per le 15.30, in un bar dove si potesse parcheggiare al volo. Alle 16 al massimo, Elena doveva aver ripreso Bobby all’asilo ed accompagnato i bimbi dalla nonna prima di riaprire l’ufficio.
Arrivò con cinque minuti di ritardo, ma aveva rallentato per ascoltare fino alla fine Vita Spericolata di quel VascoRossi, che l’anno prima già le era piaciuto con Vado al massimo.
Vado al massimo in una vita spericolata…poteva essere il suo motto segreto.
Era stanca di non essere più se stessa, quelle briglie borghesi della famigliola felice le avevano alterato anche i pensieri e improvvisamente non si riconosceva più.
Era stata contenta quando il ’68 aveva dissodato il terreno sociale, quando ci si poteva anche dichiarare contro le convenzioni, senza venire isolati.
Gli anni Ottanta, però, sembravano il velo pietoso sulla fine del coraggio collettivo…e tutti, lei compresa, si stavano adeguando comodamente.
Intanto, come Vasco, anche lei entrava al Roxy Bar. Non avrebbe bevuto del whisky, ma pazienza.
Tra l'aroma dell'arabica che addensava l'aria si infilava qualche "banco di nebbia" come lo chiamava lei. Qualcuno stava fumando.
Si avvicinò al bancone, ordinò e...lo vide. 
Lui sorseggiava già il caffè chiacchierando confidenzialmente con la giovane aiutante del barista.
Un morso allo stomaco la spinse a fare quello che si era da sempre proibita: agire d’istinto.
Si fermò vicinissima, facendo finta di non vederlo, e avvicinò la tazzina, pensando di prendere contemporaneamente la zuccheriera davanti a lui attirando la sua attenzione e distraendolo dal flirt.
Ma Antonio, prima che ancora lei avesse finito la parola caffè e senza voltarsi le passò la zuccheriera.
Finì di ridere con la ragazza del banco, sorseggiò il suo caffè e, mentre si preparava ad aprire il portafoglio, disse “Due, grazie. Questa signora è ospite mia”.
Elena, irrigidita dalla timidezza, riuscì a malapena ad alzare lo sguardo.
Trovò due occhi scuri diretti nei suoi, ed un sorriso molto eloquente.
“Allora, finito il lavoro per me?” le disse.
“Si, si, signor…. Passi pure in ufficio, venerdì, l’Avvocato l’aspetta e spero che il lavoro sia a posto!”
“Lo spero anch’io” le disse guardandola ora di sbieco mentre allungava le mille lire per pagare “Tanto, noi avremo modo di rivederci lo stesso, no?”.
Elena capì al volo. Non c’era bisogno di nessun’altra precisazione. Capì quello che lui voleva dire, capì quello che lui voleva fare, capì quello che lei avrebbe fatto e anche quello che non avrebbe detto.
Non avrebbe detto “no”. Non l’avrebbe detto da quel momento in poi, mentre tutto l’elenco di quello che si era proposta di fare e non fare e dire e non dire era stato accartocciato e buttato nel cestino con un ottimo lancio.
“Grazie” gli sorrise, finendo il caffè, come si fa quando di due cose non se ne sa scegliere una.
Uscì, mentre lui la seguiva soddisfatto.
“Avevo ragione” affermò sornione.
“Di che?” rispose lei sorpresa da quell’avvio.
“Che avevi tutte le cose a posto e sei bellissima”.
Elena avvampò al complimento improvviso e cercò con gli occhi di verificare che nessuno avesse sentito.
“Non sono abituata agli apprezzamenti” si scusò sorridendo troppo.
“E allora ti ci dovrai abituare, perché io li faccio, se sono meritati” incalzò Antonio, ormai sicuro di sé.

“Mi ci abituerò” rispose Elena, sorridendogli prima di voltarsi e avviarsi verso l’ufficio.
Lui la guardò allontanarsi, lei sentì il suo sguardo come fosse il suo tatto scenderle aderente lungo tutto il corpo, indugiare sulle natiche e poi in mezzo alle gambe.
Sarebbe stata quella la sensazione delle sue mani su di lei?



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